lunedì 30 aprile 2007

MRS. POTTER'S LALLUBY













Well I woke up in mid afternoon cause that's when it all hurts the mostI dream I never know anyone at the party and I'm always the host If dreams are like movies then memories are films about ghostsYou can never escape, you can only move south down the coast Well I am an idiot walking a tightrope of fortune and fame I am an acrobat swinging trapezes through circles of flame If you've never stared off into the distance then your life is a shameAnd though I'll never forget your face sometimes I can't remember my name
Mi sono svegliato a metà pomeriggio perché è allora che tutto fa più male: sogno di non conoscere mai nessuno alla festa, e io sono sempre il padrone di casa. Se i sogni sono come film, allora i ricordi sono film sui fantasmi. Non si può mai scappare, ma solo dirigersi a sud lungo la costa. Io sono un idiota che cammina su una corda tesa fra fama e fortuna.E sono un acrobata che oscilla sui trapezi fra cerchi di fuoco. Se non hai mai fissato in lontananza allora la tua vita è una vergogna.E anche se non dimenticherò mai una faccia, qualche volta non riesco a ricordare il mio nome.

LA SPINA DEL DIAVOLO



Un film del 2001, uscito solo ora al cinema. Grande perdita per il cinema perché mai come prima in questa pellicola si trova un perfetto connubio tra storia e horror. Questo film appare subito superiore rispetto alla categoria degli horror, perché sostenuto da una storia che, pur se arruffata, comunque perfetta nel suo svolgimento e nella sua risoluzione; superiore perché non è un’epifania sfrontata di mostri fantasmi o altro. In fondo l’oggetto di questo film è proprio l’orrore generalizzato che fa paura sia ai bambini che agli adulti indistintamente.
Sceneggiatura intricata, regia meravigliosamente fluida. Del Toro rielabora tre spunti: Suspiria di Argento (l'atmosfera del collegio, la direttrice Marisa Paredes che ricorda Alida Valli, lo spettro "sospiroso" che appare come ombra cinese), Stephen King (banda di bambini che affronta la paura), l'horror orientale (lo spettro vendicativo in cerca di giustizia). A ciò si aggiunge una parte noir in cui gli adulti si tradiscono ideologicamente e sessualmente, ossessionati da un altro fantasma: il futuro dittatore Franco. La spina del diavolo è Storia e fiaba, bambini e adulti, horror e orrore, fantasmi e malvagi con il fucile. Grande cinema.
VOTO: 7

LA MALEDIZIONDE DELLO SCORPIONE DI GIADA



Questo "Scorpione" è una commedia all'antica americana con un Woody Allen poliziotto delle assicurazioni che un ipnotizzatore trasforma in ladro di gioielli. Alla parola "Costantinopoli" il tipetto va in trance e parte per eseguire gli ordini dell'incantatore, mentre "Madagascar" è la parola che manda in tilt Helen Hunt. Lei è la nuova dirigente dell'azienda, amante segreta del padrone, che vorrebbe sbarazzarsi del piedipiatti e dei suoi metodi; lui sembra che non la sopporti e invece finisce che tra un colpo grosso e l'altro i due scoprano di amarsi. Siamo nel 1940, e le ambientazioni del fedele Santo Loquasto si rifanno ai film d'epoca con Humphrey Bogart: c'è anche Dan Aykroyd margniffone furbastro e Charlize Theron ereditiera viziata. I dialoghi sono un rimpallo di battute irresistibili e a un certo punto, nel cuore di Chinatown, scoppiano i fuochi artificiali. Una delizia.
Ovviamente non è l’Allen più ispirato, e questa commedia poco ha a che fare con quelle splendide firmate dal cineasta americano, ma nasce come puro intrattenimento e riesce in modo eccellente a raggiungere i propri obiettivi. Del resto la classe non è acqua, anche se un po’ manca il Woody Allen di una volta, capace di portare in scena un personaggio come quello di Diane Keaton in “ Io e Annie”.
VOTO: 6,5

domenica 29 aprile 2007

UN'ALTRA DONNA



Woody Allen si ripresenta con una della sue storie alla Bergman.
Una cinquantenne di successo decide di riprendere la propria carriera lavorando sul suo ultimo saggio di filosofia, come per qualsiasi altro libro ha bisogno di calma e disciplina. Decide di affittare per sé un piccolo appartamento nel cuore di New York sicura di trovare la tranquillità necessaria. Sistematasi nel suo nido lavorativo scopre che troppo protetto dal mondo esterno non è. Per uno strano difetto architettonico da un bocchettone d’aria riecheggiano le voci dei pazienti dell’analista dell’appartamento adiacente. Come può Merino cerca di fermare quelle voci facendole infrangere tra cuscini. Ma la loro potenza insinuante riesce e scostare i cuscini e durante un sonnellino Merino si sveglierà al suono della voce triste e dubbiosa di una giovane donna. Da quel momento nulla è più lo stesso.. Tutte le certezze monolitiche della donna sembrano frantumarsi ed esaurirsi. In prima istanza l’idea di sé si scontra con quella che gli altri hanno di lei: altera, estremamente critica, per tutti incarna quasi l’idea di perfezione e tutti temono un suo giudizio. A passare in rassegna poi è il rapporto familiare basato esclusivamente sulle affinità elettive escludendo qualsiasi tipo di attrazione fisica, la situazione esploderà nel momento in cui Merino troverà suo marito tra le braccia della sua migliore amica. Sarà proprio quello il momento di svolta, quello in cui Merino sentirà il bisogno di ricominciare tutto da capo, di abbandonare quel suo carattere sempre fermo e deciso, mai in tensione per l’ignoto.
Allen riprende Bergman ma il suo non è mai un semplice plagio. Sono infatti le tematiche ad essere simili ma già la loro visione è differente. Bergman vive un mondo che è pre-moderno in cui c’è sempre un deus ex machina che mostra illustra e fa da guida a tutte le peripezie della psiche e della memoria dell’uomo. Allen è coerente al suo momento storico, Allen è un modernista che vive tutti i problemi più tipici del mondo moderno e da regista li guarda e li film senza assumere alcun atteggiamento da narratore esterno e perfetto.
In tutto il film il pubblico segue di pari passo gli andirivieni della memoria di Marion, senza alcun narratore esterno pronto a spiegare la psiche confusa della donna. Allen riprende i temi tipici della modernità: l’individualità e l’instabilità dei rapporti. Pur nella grande metropoli, dove gli stimoli esterni continuamente pungolano gli uomini, ci si sente isole, soli e sono proprio questi immensi stimoli a far traballare i rapporti tra gli uomini distratti e non più in grado di mantenere una personalità solida. La modernità frantuma l’uomo rendendolo multi sfaccettato e plurimo. L’errore che si può commettere, e che si dovrebbe evitare, è pensare di essere, nel corso degli anni, sempre uguale a sé stessi.Il cambiamento è la chiave per la sopravvivenza nel mondo moderno.
VOTO: 8

LE STREGHE DI EASTWICK



Nella tranquilla borgata di Eastwick vivono tre donne libere e indipendenti, Alexandra, Jane e Sukie, che sognano il loro principe azzurro. Questi si presenta sotto le vesti di un miliardario eccentrico e un po' inquietante, Daryl Van Horne. Si tratta in realtà di un demonio che le seduce tutte e tre nel corso di piacevoli sabba. La sua presenza provoca però anche diversi inconvenienti. Quando le tre amiche riescono a disfarsi finalmente di lui sono tutte quante incinte, Miller dirige con mano felice Nicholson che è nato per questo ruolo e il trio è composto dalle splendide Susan Sarandon, Michelle Pfeiffer e Cher, vero cocktail di sensualità, bellezza e astuzia
VOTO: 6,5

CRASH -CONTATTO FISICO



Un film sull’America, anzi no su Los Angeles.... Perchè Los Angeles ha una sua anima, ha un cuore pulsante, che batte e ogni singola strada è lo specchio di chi ogni giorno ci vive.
Vite di uomini e donne, troppo veloci per incontri “normali”. Vite di uomini e donne che più da incontri, sono segnati da “scontri” da contatto-fisico doloso. Vite di uomini e donne che scorrono veloci ed inafferrabili in quelle strade. Strade diverse per gente diversa: strade piene di luci di negozi alla moda, con tutte le sue telecamere pronte a riprendere ogni singolo movimento, strade attraversate da facoltosi bianchi a piedi e in macchina, dove ad avere paura sono quelli di colore; strade degradate che raccolgono le preziose ed indaffarate vite di uomini di colore... strade che possono raccontare molto su la vita di chi ci vive. Los Angeles è animata dalle vite dei suoi abitanti, vite di uomini di diverse etnie, religioni, razze, costumi, opinioni,colori, odori, gusti.... E diversità così profonde, in un Crash, non possono che determinare scontri “carnali”. Lo scontro è sempre tra un Buono e un Cattivo, gli antipodi che creano tensioni, ed è ciò che avviene nel film.
L’occhio di Higgis è implacabile, pronto a cogliere qualsiasi espressione, qualsiasi segnale di debolezza, di forza, di coraggio e di paura nei suoi personaggi. Quello di crash è uno show sull’uomo, su tutte le sue sfumature è rappresentato senza veli tanto nei momenti di estrema crudeltà (si pensi alla violenza che il poliziotto Matt Dillon arreca alla giovane donna di colore, travestita da semplice operazione di perquisizione) quanto in quelli di debolezza (l’uomo islamico che ha perso tutto in seguito ad una rapina nel suo negozio). Higgis non vuole creare gruppi di uomini suddivisi in Buoni o Cattivi. Tutti gli uomini sono l’uno e l’altro, l’uno è contrappasso dell’altro. Un po’ contro chi ritiene che l’uomo possa essere solo malvagità o solo onestà, Higgis dimostra come la vita umana non sia altro che l’alternanza continua, perpetua e perenne tra azioni talvolta probe e altre empie. Il regista è gravemente feroce nel mostrare la cattiveria di cui l’uomo è capace ma a tanta crudeltà è capace di contrapporre azioni di sopraffine bontà e nobiltà d’animo. E un po’ tutta la pellicola gioca su questo continuo andirivieni tra azioni efferate e positive, tra eroi ed anti-eroi, a dimostrazione che l’uomo non è soltanto una della due ma entrambe. Crash è un film sull’intreccio delle vite umane, su come i diversi scontri riescano a cambiare l’uomo a renderlo ora migliore di un tempo ora l’esatto opposto.
Questa pellicola tocca diverse tematiche-problematiche sociali: razzismo, integrazione, violenza, soprusi, compromessi, ma non è a tali argomenti che strizza l’occhio. Essi rappresentano solo l’input per capire come l’uomo reagisce a tale stimolo, come ri-elabora l’evento e come si riproporrà nel prossimo incontro-scontro, perché quello che appare in modo esplicito è che l’uomo non si comporta mai, in eventi simili, in due modi uguali, ma sempre in modi opposti.
Higgis è riuscito a rendere la complessità dell’intreccio di vite intersecando tra loro storie di bianchi corrotti e neri ansiosi di riscattarsi dagli anni di schiavitù e razzismo subiti, asiatici in grado di speculare sulle vite di propri simili, senza risultare in alcun modo macchinoso o ancor peggio prevedibile. Che quello di Higgis è una carovana sul carnevale umano è dimostrato dal continuo uso dei primissimi piani, impazienti di cogliere qualsiasi movimento facciale, sguardo e tono dell’osservato. La macchina da presa è lo strumento che verifica la discontinuità dell’uomo e la sua capacità di essere in momenti successivi tutto e il contrario di tutto. Quella di Higgis non vuole essere una denuncia, ma la verifica, se mai ce ne fosse bisogno, sulla vastità dell’animo umano, che gli permette di essere qualcosa e un attimo dopo poter ritrattare tutto, aiutati da situazioni che una città pulsante, che vive delle anime di chi si sente appartenere in quei posti, propone, offre.
E’ un capolavoro, un film vero e veritiero, attento zibaldone delle scelte degli uomini, che toccano (le scelte) ora corde di assoluta e quasi impalpabile dolcezza, ora corde di crudeltà indescrivibili; tanto la dolcezza quanto la crudeltà sono così reali da rendere lo sguardo di chi l’osserva disarmato.

VOTO: 7,5

CLOSER



Questo è un film che racconta le storie di quattro personaggi, due uomini e due donne, le cui vite si intrecciano, in modo molto casuale, e si sviluppano, in modo molto profondo. Incontri casuali questa è la centralità del film, è questo il modo in cui i personaggi, le loro scelte si mescolano, si intrecciano, si scontrano, si scansano e si ri-incontrano. Chi decide tutto è il destino, un destino che posa la sua mano, in modo molto più che visibile, sulle storie dei protagonisti. Destino che un po’ come un deus ex machina crea gli incontri, incrocia vite, scontra storie, ricrea incontri e come una spirale non fa altro che avvolgersi su se stesso lasciando dietro di sé miseria (storia tra J.Law e N. Portman) o vita (J.Roberts e C. Owen), sottoponendo le sue vittime a non pochi tiri incrociati. Si potrebbe dire che è beffardo, che si prende gioco dei suoi “figli” (perché in fondo noi per il destino siamo suoi figli, dobbiamo esserlo per forza altrimenti perché tutto il suo accanirsi verso qualcuno in particolare, perché il suo attaccamento e intromissione alle nostre vite.. non avrebbe senso) ma… Lo sguardo del regista non si posa sulle vicissitudini delle 2 coppie e dei loro perversi giochi di coppia, la sua intenzione è raccontare le due facce del destino, cercare di dare un volto a quell’invisibile che puntualmente ci accompagna e ci circonda, che crea distrugge e ricostruisce tutto a suo piacimento. Ma non è solo, il destino. L’uomo non è soltanto uno spettatore di questo “mostro invisibile”, l’uomo è parte attiva di questo gioco spaventoso. L’uomo è l’unico, forse, che ha un ruolo attivo, l’uomo può scegliere. Il destino crea incontri l’uomo può scegliere:
1) farsi trasportare dalla voce melodiosa e attraente di un futuro nuovo da costruire;
2) ignorare la seducente proposta del destino.
E’ in quella scelta che gli individui si mostrano per quello che realmente sono, la scelta di un attimo, manifesto del proprio animo: egoista. Ma anche la scelta tra una mancata verità e la verità si piega all’incredibile egoismo con cui gli uomini si buttano in storie improbabili, e non ha importanza se il partner è assolutamente “immollabile” o “indipendente”, perchè l’unico motivo d’essere della relazione è il soddisfacimento dei sensi, la coppia, perso il periodo di corteggiamento e di passione, cade nella monotonia della vita comune e familiaristica, e l’unico rimedio è il tradimento, inteso solo come una nuova passione. E questo è il secondo motivo di questo film. Le storie dei personaggi sono crocevia di incontri, unioni, separazioni condite da momenti di estrema sincerità ed altri di grave menzogna (una su tutte la vera identità di Alice svelata soltanto alla fine), ma infondo non c’è alcuna differenza tra chi nasconde una verità troppo pericolosa ed impertinente e chi con disarmante e agghiacciante freddezza spiattella la verità per amore (?).
Quello di Nichols è la trasposizione fedele sul grande schermo di una sceneggiatura teatrale, e le scelte di regia sono profondamente viziate e vincolate da quel genere di scrittura, forse per non stravolgere troppo l’idea stessa del testo originale, o forse vera e propria scelta cinematografica. I richiami alla piece teatrali originale sono innumerevoli: dialoghi tra due personaggi alla volta (i quattro personaggi non si incontrano mai, pur avendone la possibilità ad esempio durante la mostra fotografica); dialoghi intensissimi accompagnati visivamente da primi e primissimi piani su faccia ed occhi a sottolineare l’intensità dei momenti vissuti;
il tradimento, idea sempre presente in scena, mai consumato realmente, che si traduce cinematograficamente con la scelta di non mostrare mai l’avvenimento, ma solo le sue conseguenze. A guardar bene questo film sembra quasi che gli unici momenti che, delle storie d’amore, si raccontano siano il loro inizio e la fine: il primo incontro preludio di un’intensa e passionale storia di sesso e la fine della storia tragica e volta alla distruzione; come se l’intermezzo fosse soltanto una lenta ed inesorabile discesa verso l’oblio della passione.
Nichols fa passare l’idea che gli unici elementi dell’amore sono l’eros e il tradimento, e ciò che più sconvolge è l’indulgente consapevolezza di fronte all’involuzione dell’amore. Il film è tutto meno che sentimentale: si può definirlo ironico, intrigante, aggressivo, ma non certo amabile e romantico. Funziona un po' come una vivisezione del carattere umano in una situazione amorosa. Quello che viene fuori è un contraddittorio, aggrovigliato miscuglio di pulsioni per lo più negative: al desiderio erotico e alla voglia di tenerezza si associano il tradimento, la menzogna, l'egoismo, l'incapacità di comprendere, la gelosia, la frustrazione.
E’ lo stesso J. Law ad affermare che perdonare un tradimento è atto di generosità estremo a provare che in amore non vince chi fugge ma chi incassa. Ma la stessa scelta di non portare mai in scena nessuno dei numerosi tradimenti è la dimostrazione che il tradimento non è un fatto ma è un sentimento. Non il tradimento come atto ferisce, perchè questo giro di boa appare quasi necessario ad ogni coppia, è il sentirsi traditi che ferisce, provoca ira, rabbia, delusione e dolore.
Questo film non è affatto conciliatorio, non è portatore di alcun buon sentimento, e in realtà lo si apprezza o detesta per gli stessi identici motivi, quel che è certo è che non potrebbe mai suscitare indifferenza.
VOT: 7,5

SERATA MANHATTAN


Mi prende sempre così dopo qualche bicchiere di troppo: pensieri negativi e tutta la testa che gira.
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Lo so è giusto classificare le amicizie ma davvero io conto quanto qualcuno che hai visto doltanto per un' estate e dici pure di starti sulle palle? Davvero sono più importanti gli amici del tuo ragazzo piuttosto che un' amica di decenni (con tutti i nostri alti e bassi ovviamente)?
Forse ho solo una persona che per cui sono importante..davvero..

DONNE SULL'ORLO DI UNA CRISI DI NERVI



Pepa, una doppiatrice cinematografica, abbandonata da Ivan, suo collega ed amante, non sopportando l' idea di rimanere sola nell'appartamento pieno di ricordi, parla con un'agenzia per affittarlo. Intanto, avendo avuto dalle analisi la prova di essere incinta, cerca in tutti i modi di comunicarlo a Ivan, per il quale prepara un gaspazco pieno di tranquillanti e si trova costretta ad offrire ospitalità a Candela, un'amica ricercata dalla polizia per aver dato asilo ad un terrorista sciita. Poco dopo nell'appartamento giunge la moglie di Ivan, Lucia, la quale, già ospite di una clinica psichiatrica, recuperate lucidità e memoria, è intenzionata ad uccidere il marito perché venti anni prima l'aveva abbandonata dopo la nascita di Carlos, il loro unico figlio che, nel frattempo, è sopraggiunto con la fidanzata Marisa desideroso di affittare l'abitazione di Pepa. In questo trambusto si inseriscono sia due poliziotti decisi ad interrogare Candela che l'operaio dei telefoni chiamato a riparare l'apparecchio che Pepa ha gettato dalla finestra. Pepa va a parlare con un'avvocatessa femminista per la situazione di Candela e scopre che con lei Ivan ha progettato di recarsi a Stoccolma. All'aeroporto mentre Ivan è in procinto di partire con la nuova amante, Pepa non solo riesce ad impedire a Lucia di ucciderlo ma ha la forza d'animo di lasciarlo per sempre. Un film divertentissimo, che ha ottenuto dovunque successo di critica e di pubblico e che ha lanciato definitivamente lo spagnolo Almodovar. Il film si svolge tra una gag divertente e una tragicomica, tutto quanto incorniciato in una scenografia perfetta e senza alcuno sbavatura. Finisce a colpi di pistola. Per fortuna a vuoto.
VOTO: 7

THE BLACK DAHLIA



The Black Dahlia, ovvero «Dalia nera», si ispira a un celebre caso di cronaca che sconvolse Los Angeles nei primi giorni del 1947: una ragazza di nome Elizabeth Short, poi soprannominata appunto «la dalia nera», venne trovata orrendamente assassinata in un terreno incolto dalle parti di Hollywood. Era una delle tante ragazze venute a Los Angeles per far fortuna nel cinema. Anni dopo il giovane Ellroy si votò a raccontare la sua storia, perché sua madre era stata uccisa in circostanze piuttosto simili. Solo rielaborando l'omicidio della «dalia nera» Ellroy è riuscito a fare i conti con il proprio passato: e nel romanzo ha inventato due poliziotti, Lee Blanchard e Bucky Blelchert, innamorati della stessa donna (la bionda Kay) e ossessionati, come lui, dalla morte della «dalia». È lo spunto per un viaggio negli angoli più bui e fetidi di Hollywood Babilonia, in un mondo dove tutti - tranne il «puro» Bucky - nascondono cose terribili. Si va da un ring dove schizza il sangue e saltano i denti alle strade violente di remote guerriglie urbane, dagli stanzoni della polizia ai ritrovi delle lesbiche, dalla lussuosa residenza di un palazzinaro furfante, a un antro degli orrori ai margini della metropoli sotto la collina con la scritta Hollywoodland. Tutti i personaggi vanno dall'antipatico al repellente e la visione del mondo che esprimono, fra menzogne e turpitudini, è più nera del noir.
Il film non è riuscito, sul piano dell'emozione pura perché debordano le scenografie di scuola (L.A. riscostruita a Sofia), la voce narrante fuori campo, i passaggi di trama tortuosi, le «spiegazioni» puntigliose, e a tratti affiora la maniera. Insomma, De Palma - grazie alla strepitosa versatilità che gli ha fatto firmare numerosi capolavori - tiene testa agli oscuri baratri del libro e porta a termine la missione impossibile, ma non riesce stavolta ad aggiungervi un proprio tocco originale, in qualche modo incandescente o persino irrispettoso. Disuguale, a questo proposito, appare anche lo standard di recitazione: ai due poliziotti ex-pugili Blanchard e Bleichert interpretati con professionale dignità da Aaron Eckhart e Josh Hartnett si contrappongono, infatti, tre complesse e spiazzanti figure femminili che dovrebbero incarnare lo spirito di un'era americana a conti fatti indecifrabile, sospesa com'è tra euforia e degrado, trasgressione e conservatorismo, speranza e disillusione. Mentre Hilary Swank, nel ruolo dell'enigmatica e tarata ereditiera Madeleine, regge il confronto indiretto con le dark ladies di Hammett e di Chandler, la star del giorno Scarlett Johansson sembra calarsi nella parte (un po' alla Rita Hayworth o Lana Turner) della donna amata da entrambi i piedipiatti con imbambolata fissità da minimo sindacale.
Un film grande, in definitiva, che non arriva a diventare un grande film proprio perché la crudeltà diffusa, il sesso sempre equivoco, la spietatezza della megalopoli restano nell'occhio anziché nel cuore e nelle viscere.
VOTO: 6

A/R



Marco Ponti ci prova di nuovo con una commedia stile Santa Maradona. Di sicuro la sua mano si riconosce alla prima inquadratura, anzi per i primi dieci minuti del film sembra di star rivedendo proprio il suo film precedente. Vuoi per la presenza di Libero De Rienzo, vuoi per la stesse location scelte,vuoi per una colonna sonora firmata ancora una volta dai Motel Connection o vuoi perché Marco Ponti sembra proprio marchiare a fuoco i suoi film, fatto sta che ci vogliono più di dici minuti per capire che il film è un altro.
Iniziate a tracciare le linee guida del film la storia inizia a prendere quota e ritmo. Un intreccio casuale fortuito e momentaneo di vite e di storie che si abbracciano per poi dividersi, perché questo è ciò che fanno le hostess: arrivare per poi ripartire. E tra un imprevisto a Libero de Rienzo e uno a Vanessa Incontrada c’è anche il tempo di una rapina perfetta da veri professionisti. E da perfetti ladri gentil uomini ci si divide tutto il bottino di parecchi milioni di euro.
A rendere il film piacevole è decisamente il finale, per nulla scontato e decisamente romantico-chic. Nessun sacrificio d’amore, un arrivederci etereo tra il finestrino di un aereo ad alta quota e il bacio volante dal terrazzo del museo egizio.
VOTO: 6

PRIMO AMORE



Un film sulla perdita, il quinto di Matteo Garrone.Non bisogna lasciarsi fuorviare dal titolo, tratto da un opera teatrale di Beckett. In scena c’è una forma particolare d’amore, o forse sarebbe meglio dire la sua estremizzazione. L’amore è ossessione, è la pretesa di poter modellare l’altro; c’è l’altra faccia dell’amore, quella del possesso, dell’annichilimento di sé, della solitudine.. E allora non si capisce se l’atto d’amore è di chi si lascia trasformare, o di chi pensa di fare il bene di entrambi iniziando l’opera di modellismo. Perché tutto il film ruota su un concetto fondamentale: lasciarsi tutto alle spalle, perdere ogni contatto con il passato; e quando sembra non sia rimasto più niente, continuare a scavare, togliere lo strato di catrame che riveste la superficie delle cose, e bruciare tutto nel fuoco. Quello che resta è la cosa più importante. Vittorio - un personaggio antipatico come pochi, interpretato dallo scrittore Vitaliano Trevisan - è alla ricerca di una donna, o, come dice lui, di un corpo e di una testa, nell’ordine. Trova invece in Sonia prima la testa, e poi il corpo. Approssimativamente tra i 55 e i 57 kg. Troppi. Il film racconta la loro storia, il loro incontro e poi la loro difficile convivenza. Vittorio vuole modellare a suo piacimento il corpo della compagna: la sua è una vera e propria ossessione. Solo quando avrà perso almeno 10 kg potranno cominciare a vivere. Come un fiore senz’acqua, pian piano la ragazza appassisce. La bilancia segna un’inesorabile perdita di peso. L’unica traccia d’amore forse è proprio lo slancio di Sonia: annienta se stessa e i propri bisogni elementari per fare spazio ai desideri di quell’uomo che a malapena conosce, si autoinfligge pranzi e cene a base di carotine e insalata per realizzare i sogni (le manie) di Vittorio. E renderlo un po’ meno triste. Ma può una relazione basarsi sull’annientamento di sé, sulla prepotenza, sul sogno di perfezione, di un corpo che rispecchi un ideale?La risposta sta nel finale, inevitabile. E indecifrabile: happy end o tragedia? Dipende solo e soltanto dal punto di vista. Il ritmo è pacato, la storia fa frullare in testa pensieri strani e disturbanti sulla violenza di cui si può nutrire l’amore. La voce off del protagonista strascica le parole, infastidisce. L’accento veneto non corretto immerge i personaggi in un ambiente reale. Cosa resta allora? Restano le ossa, resta lo scheletro portante, resta il potere e la forza della pura immagine, l’essenza del cinema. L’inquadratura è sempre ricercata, ma la macchina da presa alla fine viene sempre calamitata sui corpi di Sonia e Vittorio. A volte l’occhio si avvicina così tanto alla loro pelle da sfocare. Sono dettagli che non consentono una visione d’insieme del corpo, e che quindi, in un certo senso, nascondono. “Primo amore” è un film che cerca di bruciare tutto il superfluo e di recuperare l’essenziale: l’immagine e il corpo.

LA FABBRICA DI CIOCCOLATO



La simbiosi attore/regista è ormai totale. Nei panni di Willy Wonka, Depp appare solo dopo mezz’ora di film: il suo ingresso in scena, con gli enormi occhialoni da sole, il cilindro e i capelli a caschetto alla Prince Valiant, è da antologia. Prima, abbiamo assistito alla vita povera e felice di Charlie, il vero protagonista del film. Il piccolo Charlie vive con genitori e nonni in una baracca, nella città operaia e fatiscente che circonda la gigantesca fabbrica di cioccolato di Willy Wonka. Quando il misterioso cioccolataio, che da anni vive recluso, lancia un concorso (i cinque bambini che troveranno uno speciale coupon dorato in una tavoletta di cioccolato potranno visitare la fabbrica), Charlie sogna di essere tra i fortunati. Prima di lui, i coupons vanno a bambini ricchi, viziati e insopportabili: ma il quinto tocca proprio a lui, e Charlie potrà finalmente vedere il mitico Willy, accompagnato dal nonno che un tempo, nella fabbrica, ha lavorato...Quando entriamo con Charlie e gli altri bambini nel regno di Willy Wonka, capiamo subito che il cioccolato è una scusa. Willy è il custode di un mondo dove regna la fantasia. Quando vediamo gli Oompa-Loompa creare tavolette identiche al monolito di 2001 Odissea nello spazio, possiamo giungere alla conclusione che la fabbrica di cioccolato è Hollywood. Lettura legittima, ma riduttiva: è anche il regno di Oz, è Disneyland, è l’Isola che non c’è, è la sintesi di tutti i regni immaginari che l’uomo si è inventato per sopravvivere, e Willy Wonka ne è il custode. È un artista misantropo che Johnny Depp costruisce come un dandy bizzarro, irascibile e sotto sotto tenerissimo. È la creatura alla quale Tim Burton affida il suo messaggio: per vivere nel mondo occorre recuperare la ricchezza e l’ambiguità delle fiabe, con la loro poesia e la loro crudeltà. La fabbrica di cioccolato è un film utilissimo per sopportare questa nostra pesantissima epoca.
VOTO: 7

JULES ET JIM



Questo è un film sull’amore, anzi è l’Amore che parla attraverso il film e nasce cresce e si manifesta in tutte le sue diverse forme e sfaccettature, è come un diamante, dai molteplici lati, e ogni suo lato non fa altro che ravvivare e rafforzare quella luce che abbaglia gli occhi di chi lo guarda. E non bisogna spaventarsi o rabbrividire se in scena non c’è la “comune” coppia di innamorati, principio chiave del film è che l’amore non è quello esclusivo tra due, (o almeno non solo per loro) l’amore è Amore per l’Amore. L’amicizia tra Jules e Jim appare come il cuore pulsante e palpitante di una storia che si sviscererà in tante piccole storie, che confluiranno tutte quante nell’elogio finale per l’Amore e la Morte. Amore e Morte legate fino alla fine, forse perché chi ama davvero, chi ama così profondamente un uomo (o la vita), come fa Cathrine, non può pensare di poter continuare a vivere essendone privata, e infondo il suo suicidio deve esser concepito come estrema celebrazione alla vita; consapevole del non poter mai più provare un tale Amore preferisce morire e rendere Eterno quel sentimento che ha provato, sempre fino in fondo, senza mai risparmiarsi. Sullo sfondo la vitalità della Belle Epoque, con tutta la sua carica innovativa culturale, sessuale, artistica. Jules e Jim, uno tedesco e l’altro francese, sono due letterati, amanti della cultura e amanti della Bellezza e del bello. E’ proprio la loro alta cultura a rafforzare la loro amicizia, sostenuta da un’incredibile curiosità verso il diverso, il lontano. I due amici sono estremamente diversi l’uno, Jules il tedesco, ingenuo, tenero, estremamente idealista; pensa all’Amicizia e all’Amore come concetti, idee assolute, platoniche. Così diverso da essere idoneo nel mondo moderno, in quel mondo così emancipato per lui, dove non riesce a trovare una donna che riesca davvero a stimolarlo e ad amare, e un po’ intimorito e un po’ rassegnato da questa ricerca, sembra quasi accontentarsi di quel primo amore che ha lasciato nel suo paese prima di trasferirsi in Francia. E poi è ancora una volta l’amore per il bello a “scegliere” per lui. E’ come una apparizione, il sorriso fermo, immobile ed eternamente immutabile di una statua, sarà quello il volto del suo unico Amore, e sarà quello l’unico volto di donna che continuerà a cercare. Jim è il nuovo volto della Francia; come lui stesso si definisce è un curioso per professione, rappresenta la modernità, riesce a coniugare perfettamente cultura e vita in una sintesi assoluta e troppo autentica per sembrare artificiosa. Jules ama il concetto della vita, Jim ama la vita. Jules cosi terribilmente inadeguato, Jim così gravemente attuale. Ma quella diversità così tanto esibita fu taciuta dall’arrivo di una donna. Era lei ciò che legava due uomini cosi terribilmente asincroni: Cathrine; era lei tutto ciò che avevano amato in una statua che videro in un museo italiano; era l’Idea di Donna che avevano sempre amato. Ma “Cathrine era troppo di Jules perché Jim potesse anche solo prenderla in considerazione come donna”. L’amico francese sapeva che Cathrine non era la donna adatta per Jim, che ben presto lei si sarebbe annoiata di quelle qualità che in principio l’avevano fatta innamorare di Jules: la sua mitezza, l’estrema ingenuità e la tranquillità, quel suo modo d’amare tipicamente romantico (nel senso più comune e popolano del termine) aspetti che l’avrebbero portata all’abbandono; e nonostante tutto, per amore del suo amico, fece tacere quell’ impulso irrefrenabile che lo spingevano verso quella donna così libera e fragile. I contorni di Cathrine sono assai labili e confusi appare difficile cercare di capire se è tanto femminile da servirsi del suo lato puerile come arma di seduzione, o tanto infantile da attirare l’amore dei due uomini, che per lei provavano innanzitutto un grande senso di protezione; protezione per una donna che nella tempesta sa amare tutto e tutti e nella tranquillità della vita familiare non riesce ad amare neppure sé stessa. Cathrine è una creatura eccezionale, non può essere racchiusa nella sterile e infondata idea di donna; ella è molto più di una donna, è tante donne: in lei c’è l’amore rigoroso di Gilbert che aspetta instancabile l’amore di Jim, in lei c’è la giovinezza, la purezza, la gioia e la spensieratezza di sua figlia Sabine, lei sembra quasi essere la portavoce di quel femminismo che di lì a poco si sarebbe manifestato (il suo tuffo nella Senna ha quasi la stessa carica rivoluzionaria delle donne che in piazza bruciarono il reggiseno, dimostrazione di una nuova epoca e di cambiamenti). Cathrine è tutta la vita racchiusa in un sorriso di dea. Ma ciò che di lei più amano Jules e Jim non è la sua bellezza, non è la sua spiccata intelligenza… è la sua incapacità di mentire! E’ questo che la rende unica ai loro occhi; ed è solo in nome di questa unicità che riescono ad accettare la sua anarchia amorosa, unico principio ispiratore della sua vita. E’ talmente vera da riuscire a confessare, a colui che è diventato suo marito Jules, il tradimento prima del matrimonio; è talmente vera da confessargli, senza ombra di pentimento o rimorso, l’amore nei confronti del suo migliore amico e nonostante tutto continuare a volergli bene; e qui il regista, come un padre premuroso o come un cronista ineccepibile mette in mostra, senza giudicarli, i segni del cambiamento ed è estremamente efficace a difendere la donna che potrebbe essere bersaglio facile di accuse pesantissime. Al centro di questo film c’è l’amore per due uomini, contemporaneamente, così diversi l’uno dall’altro, ma il regista esibisce tutta la tenerezza e la purezza di questo manage a trois. Non c’è nulla di perverso, di non sano o di immorale, anzi l’amore che Cathrine prova per questi due uomini è l’amore completo, è l’amore per l’amore, è l’amore per il sentirsi amati. Cathrine è una strana-donna, “cercava di imbrogliare la perfezione del mondo attraverso le sue scappatelle”, è assolutamente incapace di concepire l’immobilità dell’amore e della felicità. L’amore e la felicità è nella ricerca e non nella stasi, e in questo è molto simile a Jim, ed è questo che ama di Jim. Cathrine è assolutamente incapace di accontentarsi o di fermare per sempre un momento come la felicità, l’unica soluzione che ad una donna sempre alla ricerca dell’amore e della felicità si presenta è rendere eterni i suoi sentimenti fermandoli prima che possano degenerare. Unica soluzione: suicidio!
Jules e Jim è uno dei manifesti della Nouvelle Vogue una corrente aspramente schierata contro quel modo di fare cinema da loro stessi definito “cinema dei figli di papà”. Si schierano contro quel cinema classico che vede nella regia invisibile la sua espressione più alta e fa posto ad una regia estremamente viva e presente, dove proprio quei tocchi visibili della telecamera, i fermi immagine, il pedinamento dei personaggi, la voce fuori campo esplicitano la poetica dell’autore.
E il bianco e nero utilizzato, così netto candido fa presumere che Truffout non abbia voluto caricare il film anche del colore, come se questi potesse essere motivo di distrazione, piuttosto che elemento conclusivo.
VOTO: 7